PAOLO MEONI

12 Giugno | 31 Luglio 2014



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VOLUMI

Sono anni che Paolo Meoni usa lo scanner per realizzare delle opere fotografiche. Perché?
La prima risposta, più evidente, è che questo gli permette di prendere la fotografia, sia l’immagine fotografica che l’oggetto fotografia che il procedimento fotografico, come oggetto del proprio lavoro. Non scatta, ed è affascinante poter dire che lavora al tempo stesso sul prima e sul dopo dello scatto; non cattura l’istante né fissa lo spazio, ma li moltiplica, li concentra e li dilata, li svuota e li potenzia insieme, sommandone vari, sovrapponendoli o filtrandoli attraverso barriere; non privilegia ciò che è rappresentato, né lo sguardo che lo seleziona, ma anzi rileva e rivela la polvere che si è depositata sull’oggetto, integrandosi all’immagine e stravolgendola, chiamando il nostro sguardo a una posizione diversa. Le serie si intitolano Streams (2007), Dusty Landscapes e Dusty Faces (2009), Nuits sans nuit (2010). Con New Landscapes (2011) prende addirittura una pellicola già usata, già impressionata, ready-made dunque, che usa come una superficie che manipola attraverso un oggetto che preme su di essa prima di scannerizzarla. È evidentemente l’antecedente dei nuovi Volumi (2013), presentati in questa mostra, perché il foglio della pellicola deformato da superficie diventa un rilievo, dunque assume volume.
La seconda risposta a proposito dell’uso dello scanner è più formale o teorica ed è che questo permette a Meoni di intrecciare, di far collidere, di mettere in circuito, che sia a confronto o in cortocircuito, due media tra di loro. Quello che allora accade è che ciascun medium trasferisce le proprie peculiarità sull’altro, mettendone alla prova dialettica la sua cosiddetta specificità. Che cos’è la fotografia? Che cosa la distingue e specifica? Il taglio, lo spazio, il tempo, la sospensione, lo sguardo? Evidenzio uno dei suoi caratteri peculiari e lo rimetto in gioco attraverso l’intreccio con quello un altro medium che ha altra specificità, magari opposta; in questo modo non la fisso dogmaticamente né mi limito a decostruirla, ma ne estraggo nuovi esiti.
Meoni l’ha fatto anche con il video, intrecciato alla fotografia: fuori campo e entropia (Unbend, 2006), cornice e sfondo (Bound, 2008), stasi e movimento (Unità residenziale d’osservazione, 2009), unità e montaggio (Rewind, 2011), davanti e dietro, immagine e parola (En plein air, 1012) e così via, ma naturalmente non solo due a due ma insieme, vengono intrecciati tra loro ogni volta in maniera diversa. Video e fotografia insieme, a volte più l’uno a volte più l’altro, costringono a interrogarsi su che cosa sia l’uno e che cosa l’altro, e al tempo stesso su che cosa sia quello strano insieme che ne deriva e che stiamo fisicamente guardando. E come lo stiamo guardando, come cambi il nostro sguardo di fronte allo strano – ora stavamo per scrivere “straniante” e anche “perturbante” – prodotto che non possiamo definire né solo in un modo né solo in un altro.
E quali specificità mette in gioco lo scanner da intrecciare alla fotografia, che modificano quelle della fotografia e producono altro? Due manifeste, e di primaria importanza. La prima è la luce, ancora un’altra versione dell’uso di quella stessa che fa della fotografia la letterale “scrittura di luce”. Lo scanner è una strana macchina fotografica tutta chiusa su se stessa, che non riceve la luce dall’esterno ma la produce al proprio interno, la proietta su ciò che deve trasformare in immagine e la ricattura (lasciamo per ora da parte che la traduce in codice digitale, che è ancora un’altra questione). È una luce particolare sotto molti punti di vista: non è certo la luce naturale, non è il flash, né è paragonabile ad altre luci artificiali ma che vengono sempre a illuminare dall’esterno. È una luce piena, omogenea, continua, e registrante: è essa stessa a “leggere” l’immagine o l’oggetto che le si sottopone per essere fissato.
La seconda specificità dello scanner è però che la sua luce scorre, non è ferma e non è puntuale, cioè concentrata in un punto, ma sviluppata in una superficie. È la luce a muoversi nello scanner, non la pellicola, non la macchina da presa, non il soggetto ripreso, come nel cinema e nel video. È un movimento diverso, così come la stasi è diversa da quella fotografica. Mentre la luce si muove, altri elementi si intrecciano tra loro: la luce stessa può essere manipolata, vorremmo dire addirittura modellata, come si dice della materia di una scultura, e si può spostare l’oggetto su cui scorre, si possono cioè introdurre tutte le altre varianti, che però interagiscono in modo diverso e ottengono perciò effetti e risultati diversi.
La variante che Meoni privilegia nella serie Volumi è quella che mette in dialettica la superficie e, appunto, la tridimensionalità. È lo sviluppo di quello che aveva iniziato, come abbiamo già accennato, con la serie New Landscapes di due anni prima. Lì la pressione di un oggetto produceva un rilievo,  un’impronta – e subito si ricorderà che la fotografia è uno speciale tipo di un’immagine, perché a sua volta impronta, di luce appunto – sulla superficie di una fotografia che poi, inserita nello scanner, interferiva con la luce dello scanner. Il coperchio dello scanner premuto sulla fotografia introduceva un fattore di causalità nel rilievo provocato dall’oggetto e ora ripremuto, che andava a produrre un’immagine nuova e imprevista.
In Volumi Meoni ha sostituito l’impronta e il caso con la piega e la geometria, apparentemente i loro opposti. La scelta è precisa: è la piega a introdurre questa volta la tridimensionalità senza più l’intervento di un oggetto dall’esterno, quello che lasciava l’impronta, ma per manipolazione della superficie stessa, che resta tale pur diventando altro, proprio come l’immagine, come la fotografia. Il volume a sua volta si legge in superficie, in immagine, attraverso le trasparenze, le sfocature, le linee, l’analisi delle forme, la geometria appunto. Ma la piega è in realtà una variante dell’impronta, perché si manifesta attraverso le tracce che ne possiamo vedere, così come la geometria non elimina del tutto il caso, perché un elemento di arbitrarietà rimane sempre nelle sfocature e trasparenze che non sono controllabili in assoluto.
Potremmo sintetizzare dicendo che Meoni si insinua nelle pieghe dei media che usa, li piega l’uno nell’altro e dà così vita altra – “volume” – all’immagine fotografica creando un’immagine fotografica altra. Due “macchine di visione”, come le chiamerebbe Paul Virilio, che vedono, e mostrano, ciò che noi non siamo in grado, non possiamo e non sappiamo vedere, piegate l’una nell’altra, creano immagini mai viste e di grande suggestione. Perché quello che infine conta e strabilia, nel senso proprio di abbagliare ancor prima di analizzare, è che ciò che risulta è un’immagine nuova e diversa, non solo mai vista ma al limite del visibile e del visivo, qualcosa di insituabile in sé. Né vere fotografie né pure scannerizzazioni, sono indefinibili eppure precise e significanti, se riusciamo a vederla per quello che sono. Esse sono composte dall’emergere di qualcosa che prima non vedevamo e ora prende corpo: era la polvere in altre serie, o la sovrapposizione, ora è la piega, le sfocature, puri elementi visivi che vengono a galla da dove erano.
Si potrebbe azzardare per concludere e dire che lo scanner è qui usato come una sorta di inconscio della fotografia, che ora emerge e sommerge l’immagine, che proprio per questo diventa altra, differente, strana, estranea, immagine non solo della realtà, ma della realtà più qualche cosa. Sotto le vesti di una geometria, qualcos’altro si manifesta e viene letteralmente alla luce. È qualcosa di piegato, di avviluppato su stesso, è lo spazio, è il tempo, è l’immagine della fotografia stessa.

Elio Grazioli